LA STORIA DELLA NOSTRA BAMBINA - Parte iI: la disperazione

Il secondo controllo dopo una settimana conferma una situazione stabile rispetto al primo e ci aspettiamo che la cosa rimarrà più o meno così per diversi mesi. Nel frattempo ovviamente la scoperta di questo problema ha messo in discussione tante delle nostre credenze e convinzioni, ma soprattutto ha scatenato delle dinamiche con i miei genitori che sicuramente non mi aiutano. Senza entrare troppo nel dettaglio perchè solo su questo argomento potrei scriverci un libro dirò solo che non la prendono bene e anzi a momenti perdono proprio la testa e riversano su di me tutte le loro ansie e loro paure, avendo un atteggiamento per me estremamente invadente e fastidioso, molto difficile da gestire in questa situazione già di per sé estremamente stressante e faticosa. 

Il terzo controllo apre uno scenario completamente nuovo, che va sicuramente oltre la nostra peggiore immaginazione. Le cisti hanno iniziato a crescere in modo molto veloce e il CVR che era inizialmente a 0.84 e poi 0.9 schizza improvvisamente a 1.8, facendoci superare la famosa soglia di 1.6 sopra la quale il rischio diventa molto alto. Il cuore della bambina funziona ancora bene ma è tutto spostato e schiacciato verso la parete sinistra del petto a causa della massa delle cisti. Il medico che ci sta seguendo al Meyer, con cui non ci troviamo per niente bene, ci dice solo di tornare dopo cinque giorni e che potrebbe esserci la necessità di intervenire perché la situazione sta diventando critica.
La disperazione mi assale.

Decidiamo di chiedere un altro parere medico e il giorno dopo vado a fare un’altra ecografia privatamente. Il medico conferma più o meno la stessa diagnosi consigliandoci però di affidarci a un team più esperto in questo tipo di malformazioni e di andare a Milano per valutare la possibilità di un intervento fetale. 
Lunedí mattina, due giorni dopo, partiamo per Milano per incontrare il guru della chirurgia fetale in Italia, il professor Nicola Persico. Lui purtroppo non c’è ma ci visita il suo team spiegandoci che l’intervento comporta molti rischi in uno stadio cosí precoce della gravidanza (23esima settimana) e che decidono di farlo solo quando le condizioni di salute della bambina iniziano ad aggravarsi e praticamente non c’è molto da perdere. 


Da un lato ovviamente ci rincuora che la situazione non sia ancora cosí grave ma dall’altro siamo un po’ delusi, soprattutto di essere andati fino alla Mangiagalli a Milano e di non aver potuto parlare direttamente con il chirurgo. 
Rimaniamo a dormire a Milano e il giorno dopo andiamo all’ospedale di Varese, che ci è stato consigliato dalla fondatrice dell’associazione “Bambini con la CCAM” (il tipo di malformazione che ha nostra figlia) dove sono molto specializzati su questo tipo di patologia.


L’approccio dell’ospedale di Varese ci piace tantissimo perchè ci fa sentire finalmente accolti e supportati come vorremmo. Conosciamo i chirurghi neonatali, la psicologa, la musicoterapista e la ginecologa che compongono questo team meraviglioso che per la prima volta ci fa sentire a nostro agio in un ospedale e che si occupano del nostro caso con empatia ed estrema sensibilità. 
Quando ci fanno l’ecografia però vedono un ulteriore peggioramento rispetto alla situazione del giorno prima e ci preparano al fatto che probabilmente ci sarà bisogno di procedere presto con l’intervento fetale. Ci dicono anche che nel nostro caso sarà particolarmente complicato, a causa della placenta anteriore che copre tutta la pancia e ovviamente non può essere bucata.
Questa è l'ultima notizia che mi getta nella disperazione e mi fa sentire come se veramente tutte le circostanze in questo momento fossero contro di noi. Non so più cosa pensare e a quale speranza o briciolo di fiducia appigliarmi. Il chirurgo intuisce la disperazione sul mio viso e mi dice delle parole che allo stesso tempo mi motivano e mi sfiancano: “guarda che la battaglia non è ancora finita. Sei solo a metà ed è adesso che dovete farvi forza”.

Le due macchie nere sono le cisti piene di liquido.

Usciti dall’ospedale ci dirigiamo verso la stazione e io mi sento estremamente stanca, sconsolata ed impotente. Sento che quello che mi sta succedendo è diventato semplicemente troppo da sostenere.  
Nel frattempo sono entrata a fare parte di un paio di gruppi FB di genitori con il nostro stesso problema, che da anni si supportano a vicenda e si confrontano.
Capisco che in Italia quasi nessuna delle mamme del gruppo ha fatto l’intervento fetale e questo ovviamente non mi rassicura e mi fa capire di quanto il nostro caso sia grave. Mi rifugio allora nei gruppi internazionali, dove famiglie da tutto il mondo raccontano le loro storie positive con questa rara malformazione.
Leggiamo storie di bambini quasi dati per spacciati, con situazioni disastrose, che riescono comunque a nascere, a superare l’intervento chirurgico e finalmente ad avere una vita normale. Alcune mamme mi rispondono raccontandomi di aver fatto l’intervento fetale con lo shunt e che questo ha salvato i loro bambini che adesso stanno bene. Ne leggiamo più che possiamo e ci appigliamo alla speranza di essere noi un giorno a pubblicare la foto di nostra figlia e a raccontare quelle storie di speranza. 

Ogni volta che torniamo da una visita mi sento stremata e ho bisogno di un po’ di tempo per processare ed elaborare tutte le informazioni ricevute e ricentrarmi. Di disconnettermi da tutto ciò che viene da fuori e riconnettermi con il mio intuito e il mio sentire. Con quello che mi dicono il mio corpo e la mia bambina e con quello che sento essere giusto per noi.
Anche questa volta, dopo questi due giorni estenuanti in giro per ospedali riesco a ritrovare un po’ di fiducia e continuare a sperare che la bambina riuscirà a farcela in qualche modo. Lei intanto non ha mai smesso di parlarmi e di rassicurarmi che sta bene ed è più forte di tutte le circostanze. Che la sua anima vuole incontrarci e troverà la sua strada. Io, nonostante tutto, non ho mai smesso di visualizzarla. Di immaginarmi la potenza del momento in cui nascerà e la gioia infinita di tenerla tra le mie braccia, di sentire il suo odore e di allattarla. Non ho mai smesso di pensare a lei e di preparare la camera per il suo arrivo. Non ho mai smesso di credere che nonostante tutte le difficoltà in qualche modo, non so come non so dove, ci abbracceremo e tutta questa fatica sarà valsa la pena. 
Ho smesso però di cercare di controllare come avrei voluto che le cose andassero e ho iniziato a focalizzarmi solo sulla visione finale: io con la mia bambina in braccio. Come ci sarei arrivata non aveva più importanza ed ero pronta ad accettare quello che la vita aveva scelto per me. 


In qualche modo ci rimettiamo in piedi e ritroviamo le energie per andare avanti con questo percorso: l’unica cosa che possiamo fare adesso è tornare a Milano il venerdì e vedere cosa ci dicono.

La nostra storia continua qua.

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